Nuovi vitigni resistenti alle patologie: è vera lungimiranza?
All’inizio della mia attività di ricercatore ebbi l’opportunità di occuparmi del miglioramento genetico dei cereali. Infatti, per una coincidenza, giunto al momento di decidere l’argomento della tesi, mi trovai a sgranellare pannocchie di mais, seminare le differenti ‘linee’, eseguire i rilievi delle fenologie, oltre naturalmente verificare alcuni comportamenti e tra questi, le produzioni di ogni selezione. Eravamo fine anni sessanta tra Piacenza e Montanaso Lombardo, in quest’ultima località si era più stanziali. Si facevano anche periodiche ‘missioni” per verificare altri campi sperimentali allestiti soprattutto in Friuli.
Non c’è storia del miglioramento genetico vegetale in Italia che non attribuisca al senatore Prof Nazareno Strampelli il ruolo di massimo protagonista (rivoluzione varietale del frumento italiano). Successivamente, un suo allievo, il Prof Angelo Bianchi, dopo un periodo in USA presso la Prof.ssa Mc Klintock, portò in Italia i primi elementi fondamentali del miglioramento genetico soprattutto nel mais. Nacque presto una scuola di genetica vegetale (conservo le ‘dispense’ del Prof Bianchi, un trattato di genetica vegetale denso di argomenti ‘nuovi’). Si costituì così un nucleo di ricercatori, alcuni come Francesco Salamini, già attori di ricerche ed apprendimenti in USA. Un momento magico di fervori nella nuova era del miglioramento genetico del mais in particolare, ma che presto portò ad analogo orientamento scientifico in frumento, orzo, avena, grano saraceno ed orticole con i contributi di Giampiero Soressi, Basilio Borghi, Michele Stanca, Tommaso Maggiore, Natale Di Fonzo, Miriam Odoardi, Eugenio Gentinetta… Sono anche stato testimone della prima elettroforesi per la separazione della proteina realizzata in Montanaso Lombardo da Odoardi sotto la guida del Salamini che successivamente diventerà personaggio mondiale nel miglioramento genetico di diverse specie vegetali di largo consumo.
Inizia in Italia un cambiamento epocale soprattutto per il mais ma anche per le principali specie erbacee che segnerà per sempre il destino di queste piante e di chi le coltiverà. Mi ricordo che l’entusiasmo di squadra era molto grande e ‘contagioso’ verso i giovani laureati o preparatori di tesi: si toccava il futuro, ogni momento. Siccome io venivo dalle colline astigiane del vino, non mancavo di fare assaggiare qualche buona Barbera di mio padre. Il più estroverso del gruppo, Basilio, con ben celata ironia, diceva ad alta voce che “presto, attraverso un giusto breeding, sarà possibile produrre Barolo anche nel Sahara” ed intanto si gustava anche col sorriso il mio vino! Emozionante ricordare! Così, per una insperata borsa nazionale di studio del CNR (giunsi quinto su sei posti disponibili) trascorsi circa un anno preso il PBI (Plant Breeding Institute in Cambridge (Uk) avendo tutors memorabili quali Roy Johnson, Peter Scott, Martin Wolfe. Una full-immersion nella genetica vegetale per le tolleranze/resistenze verso alcuni patogeni in frumento ed avena. Esperienza di scienza e di vita che non riuscirò mai completamente a restituire per riconoscenza.
Ancora per altra coincidenza di fatti più o meno cercati, tre anni dopo, decisi di lasciare la ricerca sui cereali (nel frattempo avevo maturato specificità su frumento ed avena) per approdare all’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano Veneto (TV). Fu un impatto non da poco: mi sembrava di essere sceso da un treno in corsa e, dopo alcune capriole, atterrato in pieno inverno, sul marciapiede gelato e deserto. Poco a poco ripresi la certezza “del luogo” e ricordo come da una conversazione con Antonio Calò e Carlo Lorenzoni, col quale avevo fatto la tesi di laurea sul mais, nacque il suggerimento di ‘partire’ con una ricerca bibliografica su un curioso aspetto genetico, la poliploidia in Vitis vinifera sativa. Questo fu quindi il mio distacco ‘assistito’ nel passaggio da una pianta erbacea ad una arborea. I collegamenti con i colleghi del miglioramento genetico delle specie erbacee non cessarono mai.
Un importante passo avanti, riguarda un soggiorno presso la stazione di Geilweilerhof per la genetica su vite grazie anche ad Attilio Scienza. La stazione era diretta dal Prof Alleweld che ho anche avuto l’opportunità di ricevere in Piemonte con tutta la sua ‘squadra’ scientifica compresi gli allievi. Alleweld già ereditava un lunghissimo lavoro di breeding classico per la tolleranza verso peronospora ed oidio della vite. Questo ciclopico lavoro, che potevano fare solo i tedeschi, aveva soprattutto riguardato il vitigno Riesling a partire da inizio novecento e già erano disponibili diversi
ottenimenti interessanti, ma che trovarono poca attenzione dai viticoltori tedeschi, ben solidi sul loro storico Riesling. Ricordo pure che le valutazioni enologiche (= distanza gustativa dal Riesling) erano piuttosto lontane dai parametri classici e quindi non trovavano utilizzo.
Tornando al ricordo, ho avuto l’eccezionale opportunità di vivere da vicino fondamentali scoperte in genetica in poco più di mezzo secolo: dai trasposoni alla struttura a doppia elica del DNA…quindi epigenetica (= modifiche sull’attivazione di certi geni) e, poi eugenetica, terapia genica, cis-genesi, ‘gene & genome editing’.
Ma riferendomi alla viticoltura ed ai nuovi vitigni resistenti alle patologie, ritengo interessante l’articolo scientifico “Nuovi vitigni resistenti alle malattie” di Luigi Bavaresco (L’Enologo 10 ottobre 2017). E’ inoltre molto recente la notizia che la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, ha decifrato il codice genetico della peronospora della vite (Plasmopara viticola). Questi ultimi risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Scientific reports”.
Limitando l’osservazione al mondo vegetale, la vite, Vitis vinifera sativa, è la specie che, fino a pochi anni fa, non era stata oggetto di ‘modificazioni genetiche’. Oggi, invece, sembra sia diventata una priorità tendere all’ottenimento di varietà più tolleranti verso le principali patologie (peronospora ed oidio). Le regioni europee che più hanno fatto ricerche e conseguito risultati sono quelle settentrionali o comunque quelle dove la pressione dei patogeni è particolarmente alta. La statistica ci mostra che, in Europa, solo il 3,2% dei terreni agricoli sono costituiti da vigneti (3,5 milioni di ettari ca.) ma essi consumano il 65% dei fungicidi. Naturalmente, tra fungicidi, esiste una pericolosità fortemente differente. Anche su questi fatti si basa la scelta di costituire nuove varietà di vitigni più resistenti alle patologie.
Proviamo ora ad analizzare l’argomento nelle sue diverse peculiarità.
– in Europa e soprattutto in Italia la geografia dell’intensità delle patologie del vigneto è straordinariamente differente: passiamo da territori poco soggetti ad altri con intensità media e infine altri ancora ad elevata e costante presenza delle patologie. E’ soprattutto in questi ultimi casi che è cresciuta e continua a crescere una viticoltura resa possibile solo grazie ad agrofarmaci sempre più invasivi all’interno della pianta (citotropici, sistemici, ecc..). Il vigneto è andato fuori controllo e occupa ambienti, in tante regioni, che non corrispondono più a criteri di vocazionalità, territorialità, sostenibilità colturale. Non da ultimo, propongo un premio ‘NOBEL’ speciale al minerale rame che ha permesso, da momenti molto difficili, di perpetuare la Vitis vinifera sativa in Europa e non solo. Inoltre un suo uso moderato (= zone vocate) non comporta alcun rischio di inquinamento del terreno se si attua una coltivazione sostenibile nella quale, il complesso organico e la flora batterica possono ‘digerire’ tale minerale senza conseguenze per l’ambiente;
– non bisogna giustificare con un mero obiettivo di reddito l’impianto di vigneti in ambienti fertili e più adatti al mais o prative e simili;
– non esiste la soluzione unica e standardizzata per il vino mentre vi è la necessità di risolvere un discreto disordine voluto per obiettivi di pronto guadagno ad ogni costo;
– non esiste una viticoltura ma tante, e tantissimi vini, questa ricchezza occorre preservarla: quindi distinguere bene le viticolture mirate a massificare dalle viticolture che valorizzano oltre al vino, altri settori collegati di grande valore ed accertata sostenibilità;
– deve partire il grande riscatto delle zone storicamente vocate alla viticoltura per condizioni climatiche più favorevoli alla vite in Italia ed Europa ed è tempo di far conoscere fatti e situazioni;
– definire la geografia delle produzioni, delle emissioni di CO2 e consumi di agrofarmaci, valori della qualità dei suoli, non da ultimo delle malattie professionali;
– affermare che i problemi della viticoltura saranno risolti con vitigni resistenti è anche perlomeno una grave sottovalutazione verso l’economia del settore vino. Estendere i vigneti in zone non idonee significa portare un danno, anche economico, ai valori fondamentali che ne sono alla base: vocazionalità, storicità, identità varietale ed epigenetica dei luoghi storici, bellezza, culture consolidate autentiche, artigianalità locali, effettiva sostenibilità delle produzioni.
In argomento, ma senza volerne rivendicare la paternità, riferisco di quanto successo per il caso Prosecco. Ben prima dell’esplosione della domanda di tale vino, durante una simpatica conversazione con Narciso Zanchetta, in occasione di un incontro della Accademia Italiana Vite e Vino, gli suggerii di legare il termine “Prosecco” ad un territorio o luogo definito e di abbandonare tale nome per il vitigno ma scegliere come sinonimo la Glera. Fui profeta facile, e l’areale si allargò a dismisura fino a trovare la frazione di Trieste di nome Prosecco in regione Friuli-Venezia Giulia, (oggi in media, si vendono 440 milioni di bottiglie, ogni giorno se ne stappano più di un milione!). Un progetto quasi ‘sfuggito di mano’ che poteva nascere solo dalla abile stravaganza veneta e che costituisce anche l’esempio della sconfessione dei canoni tradizionali sulla vocazionalità dei territori, sulle denominazioni, sulla originalità delle produzioni per uno straordinario beneficio dei soli addetti ma con conseguenze ambientali e sulla salute delle persone non da sottovalutare.
A mio parere i veri problemi per la futura viticoltura di qualità negli ambienti vocati sono i seguenti:
- riprendersi la longevità dei vigneti che i nostri antenati avevano saputo con tanto impegno consegnarci. E menziono una recente chiacchiera con l’amico neo direttore del Centro di Ricerca Nazionale in Viticoltura ed Enologia, Riccardo Velasco, che stimo molto. La mia scherzosa domanda: “perché non fate del miglioramento genetico sulla vite per la resistenza alla cicatrizzazione delle ferite di potatura? Questo è il problema fondamentale… risolveremmo veramente per la longevità trasformando una liana in albero…” Ricordo che la sua risposta fu quella di un brillante, preparatissimo scienziato della genetica molecolare verso la mia provocazione: un largo sorriso ed una pacca sulla spalla.
- il mondo vivaistico viticolo, soprattutto perché l’utenza viticola ha “il ventre molle”, fornisce anche ottimi materiali certificati, ma, quasi sempre derivanti da selezioni clonali che hanno “indebolito” il vitigno e talvolta ancor più con la termoterapia, reso i materiali ulteriormente fragili nel futuro vigneto. Sembrerebbe un sistema studiato ad hoc per garantirsi una continua necessità di giovani piantine non certo a vantaggio del viticoltore. Questa situazione rappresenta un enorme e costante danno per tutte le imprese di settore e non si fa nulla per uscirne: è sufficiente osservare i vigneti per toccare con mano questa grave circostanza.
- la titolarità di fare viticoltura, un punto basilare che andrebbe regolamentato come si tutela un catasto urbano, col criterio di “non si può ovunque”. Inoltre la possibilità di impiantare i vitigni tolleranti/resistenti in zone non vocate, rende meno competitivi sul mercato i vini derivanti dalle zone di origine storica. In una strategia nazionale del settore questo aspetto di non poco conto deve essere attentamente valutato. Ricordiamo che l’Italia è una delle culle mondiali della viticoltura storica.
- bisogna sempre rammentare che il vino non rappresenta un bene fondamentale per il sostentamento umano come le proteine, i carboidrati, i lipidi, di conseguenza occorre anche un’etica produttiva più avanzata.
In conclusione, è necessario volgere lo sguardo al futuro per meglio capire:
– il miglioramento genetico per l’ottenimento di vitigni tolleranti/resistenti verso le principali patologie ha già prodotto e produrrà ancora nuovi vitigni modificati anche se non è dato conoscere la stabilità dei caratteri introdotti. Siccome è già dimostrato che si possono contenere le patologie anche con preparati vegetali da diverse specie, è quanto mai tempo di finanziare adeguatamente anche queste ricerche al fine di ottenere soluzioni efficaci e soprattutto più sicure e semplici anche dal punto di vista ambientale.
– un ulteriore problema da considerare è quello etico, infatti essendo questi ‘nuovi vitigni’ sottoposti a royalties per il loro utilizzo, si creano i presupposti per una dipendenza agronomica ed economica.
– la geografia della viticoltura, soprattutto italiana, potrebbe cogliere l’occasione per darsi una ridefinizione attraverso almeno due ben distinte scelte:
a) quella della massificazione in zone fertili, poco vocate alla vigna anche per forte virulenza dei patogeni, che saranno certamente interessate ai vitigni OGM;
b) quella degli ambienti ad elevata vocazionalità e storici con bassa incidenza delle patologie e loro controllo più facile, quasi tutti gli anni, che troverà sempre più valori nella identità dei territori, nei vitigni storicamente coltivati e nei veri valori genetici dei luoghi: “ti garantiamo geneticamente la tipicità” (epigenetica dei luoghi).
Inoltre è abbastanza evidente come, dopo una ventata di utilizzo ubiquitario di molti vitigni di appeal commerciale, è buon tempo di saper riprendere il nostro straordinario patrimonio territoriale e valorizzarlo sempre meglio. Bisogna sempre ricordare che tanti vitigni ‘italici’ posseggono importanti tolleranze verso le patologie e che sarebbe tempo di approfittarne con lungimirante sguardo, andando anche ‘oltre il gusto’ e alle mode.
1Barbara Mc Klintock, biologa statunitense, negli anni cinquanta, ha scoperto l’esistenza dei ‘trasposoni ‘, ossia porzioni di DNA in grado di spostarsi da un cromosoma ad un altro dando origine a mutazioni instabili (ricerca in mais,1951). La comunità scientifica fu diffidente (le donne erano sottostimate in ambito scientifico) e le sue conclusioni così innovative ed in contrasto con la scienza del tempo che considerava i geni entità fisse sui cromosomi. Solo 35 anni dopo fu insignita con il premio Nobel per la medicina. Bisogna inoltre ricordare che la scoperta della struttura a doppia elica del DNA fu pubblicata il 25 Aprile 1953 sulla rivista Nature ad opera di Watson e Crick: ma determinante per la comprensione del ruolo dei gruppi fosfato fu la famosa foto di Rosalind Franklin che non fu fatta partecipe della scoperta! (nota dell’autore)
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